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Alberto Toscano, “Gino Bartali. Una bici contro il fascismo”, Baldini e Castoldi, in libreria dal 24 gennaio.

Pubblicato lo scorso 24 gennaio, questo libro di Alberto Toscano analizza la figura del leggendario ciclista Gino Bartali, vincitore di tre Giri d’Italia e due Tour de France. Vi si racconta lo sportivo, il marito fedele, il credente, l’antifascista. Insomma: l’uomo. La prefazione, bellissima, è firmata da Gianni Mura. Ne pubblichiamo uno stralcio (tratto dall’inserto “Robinson” di “Repubblica” di qualche settimana fa).

«Bartali era antifascista per cultura, una cultura contadina, pratica, non derivata dai libri: aveva studiato fino alle elementari, poi al lavoro. Era cresciuto, per dirla con Alfredo Di Stefano, all’università della strada. Il suo cattolicesimo profondamente radicato sapeva dirgli cos’è bene e cos’è male. E il regime lo sapeva. Il Minculpop aveva disposizioni precise: i giornali si occupassero di Bartali solo in caso di grande vittoria, e senza esagerare con gli elogi. Nel ’38 in Francia l’Italia di Pozzo aveva vinto suo secondo mondiale calcistico, giocando in maglia nera e facendo il saluto romano. Tra i fischi e gli insulti dei francesi e dei fuorusciti italiani. La squadra fu ricevuta in pompa magna da Mussolini a Palazzo Venezia. E Bartali vinse il Tour, ma dal Duce non lo invitò nessuno. Da uomo onesto, Gino non sopportava i prepotenti, quindi era umanamente incompatibile col fascismo. Che pretendeva di dettargli il calendario: quest’anno niente Giro, solo Tour. E ci riusciva, con l’appoggio della Federciclo. Bartali rischiava sapendo di rischiare a ogni viaggio da Firenze a Terontola e poi ad Assisi. Non bastassero quei viaggi, aveva una famiglia di ebrei nascosta in casa. Il maggiore Carità aveva più di un sospetto, tenne Gino due giorni tra le sue grinfie a Villa Triste. Paradossalmente, Bartali rischiò pure d’essere fucilato da un gruppo di partigiani, tra Maremma e alto Lazio. Uno di loro urlava che l’aveva visto pedalare in divisa fascista. Vero, ammise Gino, era la divisa dei portalettere, l’aveva indossata per poco tempo, fuori Firenze, prima di darsi alla macchia. Riuscì a convincerli. Come riuscì a convincere Brera, che sulla Gazzetta lo definì troppo vecchio per sperare di vincere il Tour del ’48. “Presi il treno la mattina presto, senza avvisare Brera. Arrivai in redazione, mi ricevette un po’ stupito. Sulla scrivania aveva un pacchetto di Gauloises senza filtro. Gliene fumai cinque o sei in un’ora e gli dissi: pensi sempre che io sia troppo vecchio per il Tour? No, ammise, vacci pure, e buona fortuna. Scriveva bene Brera, ma era coppiano, come Fossati, come quasi tutti i giornalisti d’allora”. In tanti giorni su quell’auto scoperta non l’ho mai sentito dire una parolaccia, di quelle che oggi si dicono anche all’asilo. Grullo, o bischero, al massimo. La canzone dedicatagli da Paolo Conte, una delle più belle in assoluto, gli piaceva sì, ma con una riserva: “Peccato per quella parolaccia”. “I francesi che s’incazzano”, l’avrete intuito. E una puntualizzazione: “Io avrò anche il naso triste come una salita, ma come proboscide anche lui non scherza”. Questo il Bartali brontolone del “tutto sbagliato, tutto da rifare”, ma è vero che ai suoi tempi (adesso, pure) molte cose erano sbagliate. Lui, che metteva in pratica comandamenti e amava il prossimo suo, ha fatto quello che riteneva giusto e da questa primavera un albero lo ricorda nel Giardino dei Giusti, con la g maiuscola» (Gianni Mura)

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